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angle-left Cellule T “ribelli” nel cervello così nasce l’infiammazione neurotossica dell’Alzheimer - 06.11.25

Pubblicato su Nature Communication nuovo studio coordinato da Gabriela Constantin che svela un inedito meccanismo infiammatorio che danneggia i neuroni Un nuovo studio dell’Università di Verona getta nuova luce sul ruolo del sistema immunitario nella malattia di Alzheimer svelando un inatteso “tradimento” delle cellule difensive del nostro organismo. Le stesse cellule T che normalmente ci proteggono da virus e infezioni diventano, in alcune circostanze, capaci di danneggiare i neuroni e alimentare i processi neurodegenerativi alla base della malattia. È questa la scoperta al centro della ricerca intitolata “Le cellule T CD103-CD8+ promuovono l’infiammazione neurotossica durante la malattia di Alzheimer attraverso la via di segnale granzima K - PAR-1”, realizzata dal gruppo guidato da Gabriela Constantin, prorettrice alla Ricerca di ateneo e docente di Patologia generale del dipartimento di Medicina diretto da Domenico Girelli. e i cui risultati sono stati di recente pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Communications. La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza. Si stima che nel 2030 circa 66 milioni di persone avranno questa patologia e che nel 2050 ci saranno 115 milioni di pazienti con un notevole impatto sociale ed economico. La malattia ha una durata di 3-9 anni e al momento non esiste alcuna terapia in grado di interferire con il suo decorso. (fonte dei dati?) Per esplorare il legame tra immunità e cervello, il team ha utilizzato analisi trascrittomiche e proteomiche avanzate su singola cellula in collaborazione con il Centro Piattaforme Tecnologiche dell’ateneo, oltre a esperimenti in vitro e in vivo condotti mediante microscopia wide-field e live imaging ad alta risoluzione. I risultati hanno mostrato un aumento delle cellule T CD103- CD8+ nel cervello dei modelli murini affetti da Alzheimer: cellule caratterizzate da un’elevata produzione della granzima K, una molecola capace di indurre alterazioni neuronali dirette attraverso il recettore PAR-1, particolarmente espresso nei neuroni dell’ippocampo, la regione cerebrale più colpita dalla malattia. Bloccando il recettore PAR-1, i ricercatori sono riusciti a prevenire completamente il danno neuronale, aprendo la strada a nuovi approcci terapeutici mirati. Le osservazioni sui modelli sperimentali sono state poi confermate su campioni di sangue e di tessuto cerebrale umano provenienti da una biobanca inglese, dimostrando che anche nei pazienti con Alzheimer si verifica un accumulo delle cellule T CD103- CD8+ produttrici di granzima K. Riducendo queste cellule nel cervello dei modelli murini, gli studiosi hanno osservato un miglioramento significativo della memoria e una riduzione della degenerazione neuronale. “Il nostro studio – spiega Gabriela Constantin – dimostra un dialogo alterato tra l’immunità e il cervello nella malattia di Alzheimer. I linfociti T esprimenti la molecola CD8, cellule immunitarie normalmente coinvolte nella difesa contro le infezioni, svolgono un ruolo neurotossico rilasciando la granzima K che aggredisce i neuroni e altera la loro funzione”. Questa scoperta apre la via a nuove prospettive terapeutiche basate sulla modulazione delle funzioni neurotossiche delle cellule immunitarie, con possibili applicazioni anche in altre malattie neuroinfiammatorie come il morbo di Parkinson e la sclerosi multipla. Le cosiddette neuroimmune interactions – le interazioni tra il cervello e il sistema immunitario – rappresentano oggi uno dei campi più innovativi della ricerca biomedica. Normalmente, i leucociti circolanti raramente entrano in contatto con le cellule nervose, ma in condizioni patologiche la loro migrazione nel cervello aumenta, dando origine a un “dialogo ostile” che può innescare la degenerazione neuronale. Lo studio veronese ha documentato in modo pionieristico come questa comunicazione distorta possa favorire la produzione di amiloide beta e la fosforilazione anomala della proteina tau, i due segni distintivi della malattia di Alzheimer, contribuendo così alla perdita di memoria e al deterioramento cognitivo. Lo studio, che ha come primo autore e co-autore corrispondente Eleonora Terrabuio e come co-autrice Enrica Caterina Pietronigro, è frutto di un ampio lavoro di squadra che ha coinvolto Vittorina Della Bianca, Alessandro Bani, Carlo Laudanna, Barbara Rossi, Bruno Santos-Lima, Elena Zenaro, Fabiana Mainieri, Antonella Calore, Gabriele Angelini, Gabriele Tosadori e Nikolaos Vareltzakis, Alessio Montresor, Laura Fumagalli, Maria Pia Manto e Marta Donini del dipartimento di Medicina; Ermanna Turano del dipartimento di Neuroscienze, biomedicina e movimento; Matteo Calgaro, Nicola Vitulo, Daniela Cecconi e Jessica Brandi del dipartimento di Biotecnologie; Monica Castellucci e Giulia Finotti del Centro Piattaforme Tecnologiche; e Bruno Bonetti dell’Aoui di Verona. Il progetto è stato sostenuto da finanziamenti della Commissione europea, della Fondazione italiana sclerosi multipla, del National Centers Program e del programma Pnrr “Partenariati estesi”. La ricerca del gruppo di Gabriela Constantin, prima donna in Italia a ricevere nel 2003 il premio Rita Levi Montalcini e nominata nel 2010 outstanding female scientist dall’European research council, conferma l’eccellenza dell’Università di Verona nel panorama internazionale delle neuroscienze. Un lavoro che non solo svela nuovi meccanismi di infiammazione cerebrale, ma apre spiragli concreti verso strategie terapeutiche capaci di trasformare una malattia ancora oggi senza cura in una sfida affrontabile. DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-025-62405-6